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giovedì 18 luglio 2013

Conversione ecologica e sociale

di Laura Greco *

Quando si parla di riconversione si pensa quasi sempre ad interventi che trasformano processi produttivi in senso ecologico. In realtà riconversione oggi vuol dire molte cose. Innanzitutto, come diceva Alexander Langer, la riconversione ha a che fare con una sorta di conversione, nell’accezione anche spirituale che questo termine evoca. La conversione ha a che fare con «il nostro stile di vita, i nostri consumi, il modo in cui lavoriamo, il fine per cui lavoriamo o vorremmo lavorare, il nostro rapporto con gli altri e con l’ambiente».

Riguarda pertanto un cambiamento radicale del modello sociale ed economico. Una trasformazione verso un nuovo paradigma fondato sulla giustizia sociale e ambientale, che supera il concetto di sviluppo sostenibile e coniuga tutti gli aspetti della vita. Solo partendo da queste considerazioni possiamo pensare alla riconversione come l’orizzonte imprescindibile verso il quale proiettare il nostro futuro.Tuttavia riconvertire il sistema non è cosa semplice. Innanzitutto riconvertire significa pensare a processi produttivi e allo stesso tempo a sistemi di consumo, che se non cambiano di pari passo, difficilmente produrranno il cambiamento che speriamo.


Il consumo

Agire sui consumi non significa soltanto cambiare stili di vita a livello individuale. Tutti noi abbiamo abitudini ormai eco-compatibili ma che se non vengono messe a sistema, almeno in una dimensione comunitaria, difficilmente produrranno il cambiamento. Mettere un pannello fotovoltaico, o fare la raccolta differenziata, non cambia il sistema delle cose se Enel rimane l’unico gestore e l’incenerimento l’unica politica di gestione dei rifiuti. Condividere consumi e pratiche mettendole in comune (attraverso la costituzione di Gas, la creazione di orti urbani, ecc…) aggregando pertanto la domanda, può modificare sostanzialmente il sistema di produzione dominante. In questo senso, non solo il pubblico ma l’esercizio comunitario e il mutualismo stanno alla base della riconversione del modello. In questo sono attori fondamentali le reti di economia solidale, che puntano alla territorializzazione delle produzioni e dei consumi, accorciando la distanza tra produttore e consumatore.


La produzione
Riconvertire le produzioni ha anche che fare con tre aspetti sostanziali, quello economico ed occupazionale, quello ambientale e quello sociale.


L’aspetto economico ed occupazionale

Riconvertire non significa come qualcuno soprattutto a Taranto vuole farci credere, chiudere le fabbriche e lasciare a casa i lavoratori. Riconvertire significa definire politiche economiche che rispettino i diritti dei lavoratori, della loro salute e della loro qualità della vita. Per fare questo bisogna creare le condizioni affinchè modi di produzione insostenibili da un punto di vista ambientale e sociale, improntati su logiche industrialiste e fordiste, siano convertiti in altro, potenziando settori si sviluppo coerenti con le potenzialità di un territorio ad esempio, ragionando su una economia del benessere e non del sacrificio. Per convertire le produzioni d’altro canto, oltre ad avere chiare le potenzialità di sviluppo economico di una data area e alla compatibilità ambientale delle attività, è necessario avviare processi di riqualificazione professionale in grado di costruire «i nuovi mestieri della riconversione», facendoli uscire dalla logica green-economista del greenjob, ma avviando anche forme di recupero di vecchi saperi in grado di ri-immettere nel mercato delle professionalità. Chi ha detto che il calzolaio non serve più? Il falegname? Il fabbro? L’operatore del turismo responsabile? Il contadino?


L’aspetto ambientale

Per sfuggire dal pericolo della green economy capitalista e tenere assieme diritti e lavoro, dobbiamo declinare la transizione ecologica in ogni fase della filiera produttiva, tenendo pertanto insieme la riconversione del processo e del prodotto. Semplificando al massimo, una filiera produttiva generalmente presenta quattro fasi: il consumo, la produzione, la distribuzione, lo smaltimento. Se è vero che un prodotto può considerarsi «ecologicamente sostenibile», non possiamo sempre dire lo stesso del processo, che in ogni sua fase può presentare gravi contraddizioni ambientali (in primis l’approvvigionamento della materia prima). Per affrontare seriamente la grave crisi ambientale del nostro tempo, si deve innanzitutto affrontare la questione delle de-localizzazioni delle produzioni e la riconversione dell’intero processo di filiera, ponendo dei vincoli alle imprese e controllando la fasi dei processi, senza dover assistere al sacrifico di popolazioni e territori. Le zone sacrificate alle esternalità negative dei processi di produzione sono veri e propri fenomeno di razzismo ambientale del nostro tempo. Questo avviene de-localizzando nei sud del mondo ma anche vicino a noi. Oggi ad esempio Civitavecchia è una vera e propria zona sacrificata, che a breve probabilmente vedremo esplodere come una nuova Taranto.


L’aspetto sociale

Altro tema fondamentale nel ragionamento è l’aspetto sociale, che ha a che fare con la necessità di avviare processi di partecipazione che parlino alla popolazione, costruendo spazi di discussione pubblici in cui definire con tutti gli attori le politiche di sviluppo di un dato territorio. Oltre a questo, per coniugare davvero alla giustizia sociale quella ambientale, è necessario affrontare il tema della gestione e dell’organizzazione del lavoro, della precarizzazione dei diritti e della democratizzazione dei processi decisionali. Una riconversione giusta deve tener conto del protagonismo del settore sindacale che deve fare proprio ed elaborare insieme agli altri attori coinvolti, un modello di riconversione possibile.


Una riconversione giusta deve affrontare la questione dell’«occupazione senza padroni».

Le Officine Zero (ex RSi) a Roma, oggi sono una dimostrazione di questo. Di come riconvertire non sia un’azione calata dall’alto ma venga dalla necessità di lavoratori, studenti, cittadini, di vedere le ex fabbriche della Vagon Lits divenire altro, continuando a creare occupazione e rispettando gli equilibri ambientali. Esistono ormai molti esempi di fabbriche recuperate ed iniziative di autogestione in Italia che vanno in questo senso (qui il Dossier di Comune-info «Fabbriche recuperate»). A tutto ciò è necessario dare dignità e protagonismo in modo da provare a stimolare il processo di un nuovo cooperativismo che può nascere sull’onda di queste esperienze, che partendo dalle suggestioni dell’esperienze argentine, trovi una sua declinazione nazionale e aggiunga la componente ambientale come fattor imprescindibile per lo sviluppo di una economia sana.

Pochi giorni fa un’altra occupazione a Roma, quella degli spazi Ex Cotral sull’Appia, è stata esempio di come un’iniziativa dal basso, portata avanti da associazioni, movimenti, piccole cooperative, abbia delineato un progetto di riconversione sociale e ambientale, di rigenerazione e riqualificazione urbana che oltre creare occupazione, potrà risolvere un annoso problema della nostra città: quello dei rifiuti e della raccolta differenziata. L’Area infatti vorrebbe essere adibita a Zona di selezione e valorizzazione della frazione secca della raccolta differenziata, sottraendo così alla discarica i rifiuti, recuperando le materie e chiudendo il ciclo.

Poiché green non vuol dire giusto, da un punto di vista ambientale la riconversione dovrebbe misurare il grado di giustizia ambientale e sociale presente tanto nel processo come nel prodotto.

Può essere importante ad esempio l’applicazione di indici ed indicatori (dell’Igs, ad esempio, Indice di Giusta Sostenibilità) come misuratore dell’efficacia delle iniziative di riconversione, siano esse di processo o di prodotto. L’Igs misura: la compatibilità ambientale, l’equità sociale e la giustizia inter e intra-generazionale. Indicatori ed indici elaborati dal basso, con l’aiuto di esperti che possono essere strumenti decisivi nella definizione della qualità ed efficacia del processo da mettere in atto. Tutto ciò può e deve avvenire con urgenza ma attraverso un ragionato percorso di transizione graduale, che non metta a rischio l’occupazione ma, anzi, ne aumenti le opportunità.

Come direbbe sempre Langer, attraverso «utopie concrete» che mettono insieme l’idea della trasformazione radicale alla coerenza e alla concretezza delle situazioni che man mano andiamo ad incontrare.



*  Asud/Reset su:  comune-info.net , giugno 2013


Letture consigliate:
Superare il Pil, rilocalizzare, riduzione dell’orario e conversione del lavoro….

La crisi ambientale è evidente. Imprese, lavoratori, cittadini: idee per cambiare

Cambiare subito sistema produttivo e stili di vita. Alcuni hanno cominciato. Insieme




sabato 22 giugno 2013

Boom di orti a Roma: +50% in un anno

Gli orti e giardini condivisi di Roma sono aumentati del 50 % in un anno, passando da 100 a 150: aree pubbliche e verdi diventano il campo di sperimentazione di nuovi modelli di spazio pubblico a contatto con la natura.


In quasi ogni quartiere della città i cittadini, davanti all'incuria dello spazio pubblico e del verde urbano, si sono rimboccati le maniche ed hanno recuperato le aree abbandonate per restituirle all'uso pubblico: così orti e giardini condivisi di Roma sono aumentanti del 50% in un anno, passando da 100 a 150.

Sono questi i dati dell'aggiornamento 2013 della mappa on line d Zappata Romana visitata ogni anno da oltre 30.000 persone, nella versione in italiano ed in inglese, per trovare informazioni, linee guida e manuali su queste attività.

"Si può fare", il messaggio alla base del lavoro di Zappata Romana, è stato dunque accolto dai romani che, davanti all'inerzia della Pubblica Amministrazione, hanno deciso di “fare” qualcosa per se stessi e per il resto della comunità: non solo orti e giardini ma anche campi di calcio, palestre, basket, aree cani o, semplicemente, la manutenzione del verde. L' Amministrazione comunale, afferma Zappata Romana, continua a rispondere alla spinta propositiva dei cittadini con la logica della “vecchia” politica: a Roma vi è un solo orto urbano comunale costato oltre 400.000 euro. Altri quattro sono in travagliata gestazione al costo di circa 70.000 euro l’uno. Il nuovo ufficio «Orti urbani» duplica competenze e procedure del preesistente ufficio «Adozione aree verdi comunali», senza apportare miglioramenti nei risultati.

Zappata Romana chiede dunque dell'Amministrazione di riconoscere e garantire ai cittadini la possibilità di partecipazione, di organizzazione e gestione degli spazi pubblici, quali orti e giardini condivisi, per finalità ambientali, culturali e di solidarietà economica e sociale.

Prima o poi, afferma Zappata Romana, si capirà l'occasione che gli orti e giardini condivisi possono rappresentare per la città.


ecodallecittà  da  www.zappataromana.net,  19 giugno 2013

Metro A e metro B a Roma

Coscienze di serie B e cervelli di serie B
di Carmelo Dini *


Metro A metro e B a Roma. Le due letterine corrispondono suppergiù ai relativi viaggiatori, o perlomeno a gran parte di essi. I viaggiatori di serie A sono quelli che scendono a Piazza della Repubblica, a Piazza di Spagna, a via Ottaviano per raggiungere Piazza San Pietro. I viaggiatori di serie B sono quelli che scendono a Pietralata, a Santa Maria del Soccorso (Tiburtino III), a Ponte Mammolo, a Rebibbia. I viaggiatori si serie A hanno treni comodi, luminosi, con aria condizionata, che passano frequentemente. I viaggiatori di serie B hanno treni di circa trent’anni fa. Sono stretti, tristi come le facce dei viaggiatori, non passano frequentemente, e non hanno l’aria condizionata. E in questi giorni all’interno c’è una temperatura di circa quaranta gradi, e prenderli nelle ore di punta e starci dentro per mezz’ora o più, significa disidratarsi e rischiare lo svenimento. La lettera B, ma anche la C, considerato che sembra esistere anche una metro C, rispondono alla coscienza e al cervello di coloro che hanno amministrato questa città da parecchi anni a questa parte. 

Coscienze di serie B e cervelli di serie B per la Capitale d’Italia. Ovviamente i viaggiatori di serie B sono tali nella considerazione degli amministratori.


* da www.reset-italia.net, 19 giugno 2013
giovedì 23 maggio 2013

«Monnezza blues», dossier sull'affare rifiuti a Roma



Marica di Pierri *

A pochi giorni dalle elezioni comunali, una pubblicazione inchioda la politica alle sue responsabilità nella gestione dei rifiuti. E rilancia. Partendo dal basso. Scarica il pdf

«Monnezza Blues - La gestione dei rifiuti nel Lazio, emergenzialità, conflitti sociali e nuovi modelli» è il risultato di una ricerca sul campo durata un intero anno, finanziata dal comune di Roma attraverso il Dipartimento tutela ambiente e del verde e realizzata da associazione A Sud, Centro di Documentazione sui Conflitti Ambientali e cooperativa Stand Up, a stretto contatto con i comitati territoriali sorti negli ultimi decenni sul tema dei rifiuti. Il rapporto è stato presentato ieri mattina a Roma, nella sede della Fnsi, ed è scaricabile gratuitamente dal sito dell'associazione A Sud.

Roma ospita la discarica di Malagrotta, un enorme buco nero di 240 ettari (240 campi di calcio) da 5000 tonnellate di rifiuti al giorno di proprietà di Manlio Cerroni, che fattura grazie al suo impero maleodorante circa 800 milioni di euro l'anno. Malagrotta è la discarica più grande d'Europa. Dopo 35 anni e innumerevoli proroghe si avvierebbe alla definitiva chiusura. Il condizionale è d'obbligo perché l'ultima scadenza (l'11 aprile), è stata di nuovo spostata a giugno, il tempo necessario a ultimare il sito provvisorio, Monti dell'Ortaccio che si trova a soli 700 metri di distanza ed è di proprietà dello stesso Cerroni. Nelle immediate vicinanze della discarica vivono più di 50 mila persone. Contro la discarica trentennale, il suo puzzo mortale e le malattie che provoca sugli abitanti sono attivi da oltre 20 anni i comitati cittadini.
Davvero non può esserci alternativa all'avvelenamento del territorio e di chi lo abita? Per decenni le amministrazioni che si sono succedute hanno visto il conferimento in megadiscariche e l'incenerimento come unica soluzione possibile in materia di rifiuti. Ma le alternative esistono e sono riassunte dalla cosiddetta strategia "rifiuti zero". Associazioni e comitati di cittadini in lotta per una gestione dei rifiuti diversa si sono fatti promotori di numerose proposte finalizzate a cambiare il modello attuale e improntate su diverse priorità. Rifiuti zero vuol dire pensare ai rifiuti come a una risorsa. Vuol dire ridurli alla fonte, organizzare la raccolta differenziata porta a porta, presisporne compostaggio, riciclaggio, riuso, separazione, recupero, e progettare materiali e oggetti totalmente reciclabili. 
c
La riflessione è in corso da anni e attraverso l'associazione Rifiuti Zero ha unito sino ad ora 117 comuni sul fronte del ridisegno delle politiche di gestione dei rifiuti. Uno dei fondatori dell'associazione, Rossano Ercolini di Capannori, è stato insignito il mese scorso del premio internazionale Goldman, corrispondente al Nobel per l'ambiente. Chiarito che l'alternativa esiste, resta il problema per cui dare incentivi come i Cip6 agli inceneritori e alle centrali a biogas per la produzione di energia vuol dire rendere conveniente bruciare carta e plastica anzichè riciclarle. Se poi a gestire la discarica è un privato, che viene pagato in base alla quantità di immondizia conferita, non c'è interesse a che i rifiuti diminuiscano. Su questo, e sulla necessità di garantire ai cittadini il diritto a un ambiente salubre, alla salute, e quindi alla vita è ora la politica che deve muoversi.

* Ass. A Sud   da il manifesto 21 maggio 2013